giovedì, novembre 02, 2006

Il peso dell'uomo

Scritto da Agnese Licata altrenotizie.org
A due settimane dalla loro pubblicazione, i dati e le allarmanti previsioni che il Wwf ha recentemente reso noti attraverso il suo Living planet report non sembrano interessare le varie autorità internazionali. Autorità che, invece, dovrebbero discutere di come rimediare al palese fallimento delle varie iniziative, protocolli e conferenze in tema di ambiente. Nel 1992 a Rio de Janeiro la Conferenza delle Nazioni unite per l’ambiente e lo sviluppo aveva riaffermato l’importanza di non superare i limiti della natura. Ma a leggere il rapporto del Wwf sul 2003, di capisce che ben poco è cambiato, nonostante gli 11 anni trascorsi.
Ben poco è stato fatto per alleggerire il pianeta di un sistema economico che, all’altare della crescita illimitata, sacrifica tutto il resto, a partire dalla possibilità di raggiungere uno sviluppo che contemporaneamente tenga conto delle nuove generazioni e sia capace di coinvolgere in modo equo tutte le nazioni.”Dobbiamo (dovremmo ndr) plasmare adesso le possibilità per le generazioni future”, scrive nell’introduzione del rapporto James P. Leape, direttore generale del Wwf International. Ma più passa il tempo e più la nostra impronta su questo pianeta rischia di diventare letale. Secondo il Living planet report, negli ultimi trent’anni l’anidride carbonica immessa nell’atmosfera dall’uso di combustibili fossili ha ecceduto progressivamente sempre di più la capacità dell’ecosistema di smaltirla. Non solo. Le popolazioni animali, marine e terrestri con cui l’uomo convive, sono diminuite di quasi un terzo (esattamente del 29%). A minacciare oggi le altre specie, domani la stessa sopravvivenza umana, c’è di tutto: inquinamento; distruzione incontrollata degli habitat naturali a favore delle coltivazioni; continue deviazioni delle acque di fiumi e laghi per fini energetici e agricoli; eccessivo sfruttamento delle popolazioni ittiche e altro ancora. Stiamo vivendo da trent’anni al di sopra delle possibilità che la Terra ci offre e non potremo andare avanti a lungo. Le foreste, ad esempio, hanno bisogno di almeno cinquant’anni per raggiungere la maturità e trasformarsi in una riserva di legname. Senza il rispetto di questi tempi, il polmone verde del pianeta rischia di assottigliarsi per poi collassare irrimediabilmente. A quel punto, poi, non ci sarebbe molto da fare, considerando che le risorse non sono interscambiabili e, soprattutto, non possono sopravvivere l’una indipendentemente dall’altra. La capacità del nostro pianeta di farci credito non è infinita. Senza una decisa inversione di tendenza, ci dice il Wwf, nel 2050 il consumo delle risorse mondiali doppierà la capacità della biosfera di rigenerarle. Per andare in pari e non rischiare di distruggere definitivamente tutto l’ecosistema, dovremmo avere a disposizione un’altra Terra da sfruttare a nostro piacere. Per capire quanto l’economia mondiale stia spingendo sull’acceleratore senza tener conto di niente, basta dire che per il 2050 il “debito ecologico” accumulato dall’uomo nel corso degli anni potrebbe arrivare a ben 34 anni di produttività biologica. Un ritmo che tutte le ricerche continuano a definire insostenibile, senza che però a questo faccia eco la volontà concreta delle autorità di modificare il loro rapporto con la natura.Dando uno sguardo più nel dettaglio al rapporto del Fondo mondiale per la natura, si scopre che nel 2003 la terra ha impiegato un anno e tre mesi per produrre le risorse che l’uomo ha consumato in un solo anno. Un debito di tre mesi. Di questo debito, però, non sono responsabili in modo omogeneo tutte le nazioni. Nel 2003, coloro che hanno avuto la fortuna di nascere in uno dei paesi a più alto reddito, hanno consumato circa il 70 per cento delle risorse totali usate in quell’anno. Ossia: il 18% delle nazioni considerate (pari ai 27 paesi occidentali su un totale di 150) usa il 70% delle risorse consumate annualmente da tutto il mondo. Questo è il nostro modello di sviluppo equo. Questa l’economia che l’Occidente tenta di difendere dietro la maschera del Protocollo di Kyoto e delle sue quote di emissione da acquistare e vendere sul libero mercato tra nazioni; con l’obiettivo, neanche tanto nascosto, di permettere ai paesi più industrializzati di continuare a pompare la propria economia senza badare alle conseguenze ambientali. Così, se dal 1961 al 2003 l’impronta pro capite lasciata dalle nazioni a medio reddito (tra cui la maggior parte di quelle latino-americane) e a basso reddito (tra le quali quasi tutta l’Africa) è rimasta stabile e ben al di sotto della capacità di rinnovamento della biosfera, quella dei paesi occidentali è aumentato esponenzialmente. In testa alla classifica dei paesi che, con i loro consumi e i loro rifiuti, occupano maggiormente questa immaginaria superficie espressa in ettari globali pro capite, ci sono gli Emirati Arabi Uniti. Seguono: Stati Uniti, Finlandia, Canada, Kuwait, Australia, Estonia, Svezia, Nuova Zelanda, Norvegia, Danimarca, Francia. Ventinovesima, l’Italia. Una classifica che, per molti versi stupisce. A sorprendere è la presenza di tanti stati del Nord Europa, famosi per la loro attenzione alle questioni ambientali. La spiegazione sta tutta nella metodologia usata dal Wwf. Che l’energia usata venga prodotta bruciando carbone o utilizzando pannelli solari, non importa. Quello che si vuole considerare non è il “come”, ma il “quanto”. E il “quanto” è alto anche per Norvegia, Svezia, Finlandia.E allora non stupiscono le guerre, le tensioni per il controllo delle risorse, che disseminano i cosiddetti paesi in via di sviluppo: le miniere della Repubblica democratica del Congo e della Sierra Leone; il petrolio del Sudan, del Ciad, dell’Iraq; il metano della Russia e via dicendo. Perché parlare di ambiente, di sfruttamento delle risorse mondiali, non significa soltanto cercare di garantire alle generazioni future un mondo dove si possa ancora respirare e vivere in simbiosi con le altre specie; significa anche lavorare per garantire loro un pianeta più sicuro. Nella parte finale del suo rapporto, il Wwf cerca di indicare quali azioni possono e devono essere messi in opera per avviare una riduzione del debito che l’uomo continua a contrarre, ogni anno, con la natura. Due i campi su cui bisognerebbe tornare a discutere e a decidere con fermezza: da un lato, ovviamente, quello della domanda di risorse, che va ridimensionata; dall’altro, quello della capacità biologica che, seppure in modo limitato, può essere incrementata. Per riuscire almeno a mantenere stabile la quantità di risorse che usiamo è necessario cercare di contenere il tasso di crescita della popolazione mondiale, attraverso le politiche di contenimento delle nascite tanto odiate dai cattolici, e garantendo alle donne istruzione ed opportunità economiche. Ciò aiuterebbe anche tanti paesi in via di sviluppo a raggiungere redditi medi meno miseri. Accanto a questo, sarebbe importante ridurre i consumi e gli sprechi quotidiani che l’Occidente crede ancora di potersi permettere. Bisognerebbe lavorare per diminuire la quantità di risorse usate nella produzione di beni e servizi. Anche solo per mantenere stabile il consumo delle automobili, sarebbe necessario dimezzarne i consumi medi, oggi pari a 8 litri per 100 km. E già a pensare a questo, agli interessi che si leverebbero contro, ad una ricerca scientifica che andrebbe dirottata dai più redditizi scopi a cui viene dedicata adesso, sembra quasi di essere un don Chisciotte, impotente contro i suoi mulini a vento.

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